L’incipit del nostro primo articolo dedicato al Giappone arriva dalla Germania. Non si tratta di un refuso, avete letto bene. 1-vwheeqbg3nmej42qlav7-a
Se avete seguito anche gli altri articoli che introducono Melting Pot, la nuova collezione di Drusilla, potrete dedurre da voi che non c’è connessione più coerente. La contaminazione, infatti, è alla base di tante iniziative artistiche di spessore: si pensi alla più grande sfida dell’arte contemporanea che, volendone individuare una blanda interpretazione, si pone come grande obiettivo quello di sintetizzare qualcosa di preesistente. Di lasciarsi sì ispirare, ma solo al fine di creare qualcosa di altro, di nuovo.
La chiave per farlo, i modi per descrivere il mondo senza cadere nella trappola del superfluo, sono molteplici; ogni artista ha poi sviluppato la propria, ma, tornando ai fatti, i tentativi di riuscire in questi intenti si sono da sempre manifestati secondo un ordine ciclico e, quindi, secondo parametri interconnessi. La stessa concezione del tempo, a ben vedere, gode di una interpretazione ciclica fin dai tempi di Polibio che, sulla scia di Platone, parlava di involuzioni ed evoluzioni.
Non possiamo evitare di guardarci attorno, dunque: di considerare ciò che è già successo e ciò che sta succedendo; solo così, con gli occhi vigili, possiamo creare qualcosa di valido.
Negli anni ’20, mossi evidentemente dall’esigenza di tenere gli occhi aperti, alcuni danzatori giapponesi si recarono in Germania per studiare in un contesto europeo. Tra loro, due ballerini in particolare — Kazuo Ohno e Tatsumi Hijikata — hanno saputo far propria la filosofia alla base della danza espressionista tedesca: Ausdruckstanz. Ma cosa stava succedendo in Europa? Perché i due giapponesi rimasero così affascinati da questo tipo di danza? 1-tonvnfepwdlff5jktc8ungVa detto che il rinnovamento culturale di quegli anni stava mettendo disordine da tutte le parti; in Germania, nello specifico, si delineava sempre di più la volontà di creare un’arte totale — e totalizzante — che sapesse racchiudere l’ideale romantico caro all’anima tedesca. In questi termini, il teatro si prefigura un po’ come un’immagine-contenitore: il corpo viene collocato nello spazio scenico; gli viene sottratto il suo esclusivo valore fisico per far spazio ad una componente psichica finalmente dominante, che trova terreno in quegli anni proprio grazie alla nascente psicanalisi e alle dottrine esoteriche che predicavano l’importanza di connettere l’uomo con le forza cosmiche.
Allenare il corpo non serve più solo per recuperare la forma fisica, dunque, ma soprattutto per educarsi al ritmo e al gesto armonico. In merito a Ausdruckstanz, ci dice Ferroni che non costituisce un gruppo specifico, ma un orizzonte generale, dagli aspetti molteplici, che opera una rottura dei canoni tradizionali della rappresentazione, alla ricerca di una espressione di realtà profonde, in una fortissima tensione spirituale. L’estetica della danza espressionista tedesca, dunque, è pura ricerca.
Forti di questa esperienza, Ohno ed Hijika si incontrarono nel 1954 e iniziarono a collaborare: le coreografie di Hijikata furono interpretate magistralmente da Ohno e, lo studio da lui diretto, divenne il centro del movimento del Butoh.

Butoh significa letteralmente danza camminata, pestata con i piedi.

Emerge fin da subito, dunque, la decomposizione della danza come mero atto coreografico. In effetti, per molti non si tratta di una vera e propria1-3og2csasw0xcrljokdfueg danza quanto piuttosto di una forma di teatro.

Come ogni rivoluzione artistica significativa, l’esordio di questa arte fu poco compreso e piuttosto criticato: il 1959 fu l’anno in cui al Festival Giapponese della Danza — Tokyo — venne rappresentato Kinikjiki, realizzata, appunto, da Hijikata.
Pur essendo una coreografia di appena cinque minuti, la perfomance creò una grande eco attorno a sé per via del suo contenuto: lo spunto fu preso da una novella di Yukio Mishima, ma i movimenti e le immagini rappresentate furono considerate così offensive che la Direzione fece spegnere le luci prima che l’esibizione fosse terminata; in un certo senso, potremmo dire che la scena fu inghiottita dalle tenebre, e non è un caso che Hijikata avesse inizialmente denominato la sua danza Ankoku Butoh (ovvero: danza delle tenebre).

C’è da dire che l’iniziativa nasceva proprio come manifestazione di una ribellione corporea finalizzata alla provocazione e, perché no, come stimolo a resistere contro il sistema sociale giapponese. I movimenti erano spesso caratterizzati da posizioni grottesche, mistiche, al limite dell’inquietante, e gli artisti danzavano solitamente con le teste rasate, le facce dipinte e, sovente, coi corpi nudi. La danza tradizionale si vedeva così completamente contrastata e, proprio a tal proposito, il Butoh originale venne considerato una sorta di versione punk della danza classica giapponese.
Non entriamo nel merito della godibilità di questa forma d’arte, ma ciò che è certo è che se il parametro per definire valida una qualche forma d’arte resta la sua importanza postuma, il Butoh ha saputo introdurre una nuova concezione di espressione corporea che, in Giappone, non aveva precedenti.

Tornando a noi, ci piace pensare che Drusilla abbia compreso l’assunto essenziale di questa lezione giapponese: la contaminazione fa la forza; senza di essa, grandi rivoluzioni non sarebbero state possibili. Vedremo nel prossimo articolo una situazione analoga che, così come il Butoh, ha ispirato Drusilla durante la creazione degli abiti che comporranno Melting Pot.

 

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