Nell’ultimo articolo avevamo concluso chiamando in causa l’arma di cui dispongono tutti gli stilisti del mondo: le stoffe. Prima ancora, avevamo finalmente dato un nome alla nuova collezione di Drusilla: Melting Pot.
Il punto di partenza, dunque, è il medesimo che ha concluso il precedente articolo, e consiste in una presa di posizione: se lo stile di un abito è, per dire, russo, tanto di guadagnato se la stoffa utilizzata è, ad esempio, tipicamente greca. Tanto di guadagnato in senso letterale, perché tutto il materiale che proviene da terre lontane appare ai nostri occhi tanto affascinante quanto, incomprensibilmente, simile.
Servono le dovute distinzioni: in virtù della propria enciclopedia personale, alcuni sapranno distinguere un elemento culturale tipico della Corea meglio di altri che, invece, faranno fatica persino a distinguere un motivo cinese da uno giapponese. Quel che è certo, però, è che la componente esoticaacquisisce ai nostri occhi una valenza omogenea anche in riferimento a contesti e paradigmi molto differenti tra loro.
A ben vedere, questo discorso può essere interpretato in una duplice lettura: una più avvilente, sintomo di una tendenza approssimativa capace di sminuire e mortificare culture antichissime; per contro, un’osservatrice attenta come Drusilla può trarne vantaggio impossessandosi di quella grande massa multietnica per farne un abito ispirato ad un kimono giapponese, tessuto però con sgargianti stoffe africane.
Ed è proprio da questa intuizione, da questa fascinazione per l’esotico che partiremo per indagare i punti di connessione tra la nuova collezione di Drusilla e una cultura millenaria che l’ha ispirata nella realizzazione dei primi abiti che sveleremo: quella giapponese.
Non è difficile comprendere il motivo di questa scelta. Il Giappone è un luogo che va visitato con tutti e cinque i sensi. Quelle impressioni abbozzate e riduttive che tentiamo grossolanamente di ricavare dai nostri sushi all you can eat o dai turisti che vediamo in fila provvisti delle reflex più tecnologiche, in realtà sono solo lo specchio di uno stereotipico che, visto da vicino, non può essere definito altro che offensivo.
Elencarne i motivi risulta qui impossibile — e non sarebbe neppure il contesto più opportuno per farlo — ma ci basta osservare solo alcune delle arti esclusivamente giapponesi per ricomporre i pezzi di una cultura unica nel suo genere, limitata spesso dalla tendenza a parlare prettamente a sé stessa ma non per questo meno affascinante agli occhi di chi può solo scorgere un mistero carico di bellezza.
Per questo, nei prossimi due articoli analizzeremo delle pratiche giapponesi raccordate dal concetto di armonia.
Perché? Semplice: cos’è, in fondo, il Melting Pot, se non la capacità di coesistere in armonia pur essendo diversi?